VIDEO E NARRATIVA

Questa pagina è dedicata alla raccolta di racconti e dei loro video
 

CREATURA DORMIENTE dipinto nel 2018.

Introduzione dell'autore:
"
A volte accade che un operazione artistica segue diverse fasi conclusive slegate e in modo diverso legate tra loro. Nel 2018 ho realizzato il dipinto. Successivamente ho sentito la necessità di svilupparne un racconto. Nel 2020 ho voluto realizzare un video, in cui è recitato solamente l'incipit. In questa pagina presento il dipinto, il racconto e il video, chiudendo così questa strana trilogia." 

 

RACCONTO


CREATURA DORMIENTE

di

Letizia Porcaro


In un mattino gelido, sugli scogli color cenere, imbiancati da un sole accecante, una creatura, sola, distesa, dorme. Riposa rivolta al mare, come se fosse il primo o l'ultimo sguardo.

È tutta nuda.

D'istinto verrebbe voglia di soccorrerla coprendola, ma il suo corpo, le sue deformità impediscono che si faccia opera di generosità.

Viene da pensare, se quell'assemblaggio di membra sia il frutto di un cinico gioco ad opera del mare, se quell'abbozzo di forma sia, per dispetto o per stanchezza, lo scarto di onde sprezzanti o sia il deposito di una promessa accolta dalla dura terra che al sole sacrifica ogni sostanza.

Allora si aspetta, si aspetta che il tempo decida. Si aspetta il coraggio, la prudenza e si osserva.

E quando l'immagine non muta e gli occhi si stancano di puntarla, allora gli orecchi seguono un racconto e cominciano a districare la lettura. Leggono quello che semplicemente noi chiamiamo silenzio.

I primi suoni sono le piccole risacche del mare deglutite dalle rocce. Altri suoni minuscoli si compongono per formarne uno solo, costante, legnoso. E lentamente questo stesso si schiarisce in diverse voci in espansione. Una ragnatela di versi che pulsano e che si sovrappongono ad un altra rete di connessione liquida che si incrocia ad un altra ancora disseccata al sole, tutto perché si riempiano i vuoti dello spazio.

Gli alberi, che insieme formano un piccolo boschetto, ondeggiano a un vento che sembra nascondersi alle parole. Parlano di sé, sfiorando intimamente le dita. Si inchinano e pare che poco manchi perché prendano il volo.

Dove il sole riscalda, insetti convulsamente si muovono, volteggiano negli ammassi di particelle gassose e soffiano invisibili aliti d'aria.

Uccelli si alternano nella parola. Del loro discorso arriva a noi e a chi è più lontano. Il dialogo è un rimbalzo, è una cadenza, una battuta di tempo che sfreccia avanti e in dietro.

Ci sono poi parole tronche che si insinuano scivolando, parole a cui non sappiamo dare nessun aspetto e ci martellano nella mente come codici del nulla.

A quegli occhi che si aprono e si risvegliano alla vista, si presenta la densità e la corporeità dello spazio, la capacità di esso di correre in espansione e il suo possente respiro, da temere di esserne schiacciati. Ovviamente, nel fulcro l'uomo si pone.

E se il fulcro non fosse più l'uomo, ma la nuova creatura?

Lo spazio è un mare con acqua leggera, noi vi nuotiamo dentro e non esiste nessun fulcro.


È tardi! Devo sbrigarmi! Guardo dalla finestra ci sono alcune nuvole, bianche, candide, che carine! Sono perfette! La pioggia di ieri ha pulito tutto. Il cielo è nitido. Ottimo! Mi copro il più possibile. Mamma mia che freddo! Prima di uscire controllare, controllare sempre. Le batterie, la scheda dentro la telecamera, gli obiettivi puliti. Tutto apposto. Il treppiedi. Grande dilemma, lo porto o no? Ma sì, ne faccio a meno. Prendo le chiavi della casa e dell'auto. I guanti! Stavo per scordarli! Il cappellino quello caldissimo, meno male che non c'è vento! Il cellulare nella tasca del cappotto. Ecco...sono pronta! Arrivo sulla costa rocciosa, il gelo è insopportabile. Devo affrettarmi, sfruttare questa luce pulita dettagliata. Innanzi tutto fissare l'inquadratura, quella che mi ero studiata giorni fa, e poi partire con il play. Povere mie mani! Persino coi guanti tremano dal freddo! Pazientate piccoline e soprattutto resistete! Maledizione! Avrei dovuto portare il cavalletto! Scelta sbagliata! Pazienza e resistenza! Pazienza e resistenza!

E quella cosa cos'è?

Una massa tra gli scogli, in prossimità del mare, entra nel mio campo visivo. Cambio posizione. Non sono convinta, cambio ancora. Provo a tornare alla prima inquadratura, la stringo, zoommo, niente, non mi piace. Era buona la prima. Era perfetta. Però mi sposto ancora. Non contenta continuo a girovagare per la spiaggia scogliosa, rischiando di cadere e farmi seriamente male. Ma non concludo nulla. Intanto la luce sta per cambiare, il sole si alza. Cammino, mi fermo, inquadro la scogliera e il mare, insoddisfatta provo da un altra prospettiva. Le mani, il freddo, la luce e il tempo che se ne va. Mi sto innervosendo! Vago di qua e di là, mi sento una trottola! Rischio di tornare a casa senza immagini! Devo prendere una decisione.

Spostare la cosa! Vado! Socchiudo gli occhi per metterla a fuoco, ma non la identifico.

Mentre avanzo uso la telecamera, la zoommo, sembra un corpo disteso sulla scogliera. Sembra. Non si muove. Forse un sacco grande di immondizia o forse è la carcassa di un cane. Mi fermo. Che faccio? Supero il ribrezzo.

La sposto, ovvio.

E con che cosa? Cerco nella borsa qualche stralcio di carta. Lo trovo e intanto mi avvicino, annusando l'aria, ma non mi arriva nessun odore acre da carogna in decomposizione.

Allora mi fermo, circa due tre metri di distanza dalla cosa, ma continuo a non distinguerla. Aspetta! Sembra un corpo disteso, infatti vedo la schiena, il bacino, il coccige. Tra il bacino e il torace c'è un arto. Qualcosa però non mi funziona. Dalla mia conoscenza anatomica l'assemblaggio degli elementi è sconclusionato. Mentre avanzo cercando di vedere la parte che guarda il mare, elaboro congetture, scarto subito l'ipotesi della carcassa di un animale e rinforzo il pensiero che quella cosa sia un manufatto in lattice. Una specie di bambola lasciata lì a sacrificio del tempo, motivo per cui il corpo risulta completamente deforme. Il colore del lattice è variopinto, passa dall'incarnato al rosso e al verde, la parte ossea del coccige è visibile. Non ha mani né gambe, sicuramente consumate dalle intemperie. Un collo e un torace lungo con le coste che emergono dalla pelle.

Dalla Pelle? Dal lattice semmai! Avanzo cautamente, poiché le rocce diventavano sempre più impraticabili, aguzze come delle stalagmiti.

Mi blocco! Cazzo! La cosa respira! Non posso crederci! La fisso per assicurarmi che mi sono sbagliata. No, no. Nessun errore. Respira! E abbondantemente! Dorme, placida. Paura. Ferma cervello! Fermati! Il fatto che il cuore stia correndo non ti deve far credere di doverlo superare! Carrellata di tutti film horror di fantascienza! Creature apparentemente innocue, si rivelano poi terribili predatori azzannando il fesso di turno e sbranandolo in un nano secondo.

Devo scappare, trovare il modo di fuggire prima che apra gli occhi! Prima che si accorga della mia presenza! Prima, prima e ancora prima di tutto il panico che mi sta assalendo ferocemente...che caldo!

Trovo una breccia di speranza che mi salvi dal terrore, il mio strano appuntamento con l'ignoto. Allora cautamente sfilo il cellulare dalla tasca del cappotto.

Sono le 07:59. Si alzano le palpebre della creatura e scattano le ore 08:00. Mi tranquillizzo!

Dal mio laboratorio chimico, il mio corpo, scivola via tutta l'energia in eccedenza e in un secondo si ristabilisce l'equilibrio. Il cervello si sbarazza dei cattivi pensieri e riprende un dialogo sereno con il cuore che fluttua, fluttua tra circuiti venosi e arteriosi. Dunque fine panico ma solo osservazione!

Un ricordo veloce come un fulmine mi si fissa nella mente. Quella volta, nel territorio di Bosco Ficuzza, durante l'esplorazione di un rudere. In quella che doveva essere stata una terrazza dell'ala di un edificio diroccato, l'incontro inaspettato con una volpe, distesa sotto il fascio di luce di un sole pomeridiano, prossimo al tramonto. Per un istante mi ero fermata. Avevo cercato di fare il meno rumore possibile. Mentre avvicinandomi la riprendevo, il pietrisco sotto i miei piedi, scricchiolò e la volpe alzò la testa per guardare chi le aveva spezzato il sonno. Raggelai. Mi ero sentita scoperta come un ladro. Con occhi assonnati e un sorriso abbellito dall'ultimo calore della giornata mi ispezionò e sembrò che la mia presenza non la turbasse affatto. Così tornò al suo sonno. Volevo avvicinarmi ancora, ma mi trattenni, non volevo che scappasse, non volevo essere invasiva. Prima di sparire, scendendo le scale, mi girai per guardarla, un'ultima volta e lei era ancora lì, dormiva e ascoltava me che mi dileguavo.

Ho sempre provato una grande invidia per le altre specie viventi, che sanno sentire e ascoltare le presenze, lontane o vicine. Avvertire vibrazioni, riconoscendone la natura e l'origine. Ho sempre ammirato la loro capacità di immagazzinare un variegato bagaglio di informazioni, non compromesso dal sistema linguistico condizionante, come quello umano.

La volpe mi aveva sentito arrivare prima: quando avevo posteggiato l'auto, avevo scavalcato il muretto, informato il mio compagno che stavo entrando nell'edificio. Quando ero già dentro il rudere. Quando mi fermavo e riprendevo, camminavo sul pietrisco e facevo rumore. Mi aveva sentito salire le scale e avvicinarmi sempre più a lei. Eppure non aveva rinunciato al suo riposo. Aveva alzato la testa, solo quando le nostre distanze non erano più sicure per entrambi, e mi aveva avvertito con la sua espressione pacifica, che se fossi andata oltre avrei potuto distruggere quel dialogo speciale. Speciale, come essere dinanzi agli occhi di questa creatura che mi guardano, anch'essi pacifici.

Mi sento confusa e mi lascio prendere dal silenzio in cui posso solo intuire dal suo sorriso che io, ora, sono un libro chimico da leggere.

Da bambina, ero attratta da tutto ciò che era diverso da me, come se l'altro contenesse in sé un arcano mistero da scoprire. Nutrita da favole e miti, vivevo una realtà fatta di forme invisibili con cui dialogavo. Sapevo che tutto questo era il frutto della mia fantasia, ma mi piaceva pensare che ci poteva essere eccezionalmente una porta da cui fare entrare questo strano mondo. Mentre gli altri bambini si misuravano con giochi di guerra io preferivo ascoltare le parole di un albero o di un cavallo. Seguendo la mia fantasia spesso a scuola gli insegnanti mi sorprendevano distratta. Ricordo quando in prima elementare, per punizione, mi obbligarono di indossare delle orecchie di asinello fatte di carta, girare poi le classi, affinché tutti i bambini potessero assistere alla mia umiliazione.

Mai fui tanto felice! Euforica saltellando cantavo “Sono un asinello! Sono un asinello!”.

Quello che doveva essere la correzione, per non aver studiato o per essermi assentata con la mente, divenne invece la realizzazione, la concretizzazione di una delle mie tante fantasie. Da sempre le insegnanti assistevano a scene di pianti, di bambini che strillando si gettavano per terra o si aggrappavano alle porte pur di non fare il giro della gogna. Invece, quel giorno, in quella scuola, gli scolari parteciparono, ridendo ad uno spettacolo comico. Ovviamente, mi riportarono nella mia classe. Chiamarono subito mia madre che divertita, spiegò come il mio amore per gli animali avesse oltrepassato il concetto della punizione. Come poteva, mia madre, far comprendere alle maestre che passavo intere giornate camminando a quattro zampe emulando tutto quel che ricordavo di un gatto, di un cane o persino di un cavallo. Come poteva spiegare, che lei mi accontentava perché mi vedeva felice e che mai aveva dubitato della mia intelligenza, poiché ero la bambina dei “perché”. Perché questo, perché quello, perché una cosa si chiama così o perché è stata concepita in tal modo. Volevo conoscere e capire il meraviglioso mondo che avevo dinanzi.

Mentre mi godo questo ricordo, vedo le orecchie della creatura crescere e trasformarsi in quello che furono le mie orecchie d'asino. I suoi occhi brillare di eccitazione. Sta leggendo i miei pensieri o i miei ricordi? E perché mi salgono alla mente queste immagini da tempo archiviate? Forse è lei che me li evoca per forgiare un nuovo dialogo.

Un gabbiano vola sulle nostre teste. Fa una virata e atterra vicino alla creatura. Lei si gira verso l'uccello e il suo volto si deforma assumendo l'aspetto abbozzato da gabbiano. Questo se ne vola via. Durante lo sforzo il colore della sua pelle subisce un ricambio continuo, un po' come accade ai polpi. Esplosioni di colore espandendosi si mescolano a un rosso carminio a un verde smeraldo, al marrone per poi ritornare all'incarnato che è la base dove scorrono i suoi pigmenti. Il gabbiano, ritorna, si abbassa e lo imbecca. Le ha portato delle alghe. Riparte e ritorna per almeno tre volte, nutrendola come fosse un suo pulcino. Poi le si accuccia vicino a dormicchiare, ignorandomi completamente, forse.

Sento caldo, dov'è finito il freddo? Basta guanti, che vadano in borsa! Anche il cappotto diventa insopportabile. È la creatura che emana calore! Non so perché ma mi viene voglia di prenderla in braccio. Lo faccio e lei è felicissima. Si muove delicatamente e adatta il suo lungo collo alle mie spalle, per guardare le cose dall'alto. Agisco come una mamma che decide di tornare a casa, prendere in braccio il suo bambino e avviarsi verso la strada, e magari fare una breve sosta nel bar per comprargli un dolce o un gelato. Il gabbiano si alza in volo e ci segue.

Mi seggo al tavolino e provo a adagiare la creatura su una sedia, il gabbiano atterra sul tavolo. Mi sembra così strano mettere a bella mostra la creatura, ma allo stesso tempo mi sembra la cosa più naturale da fare.

Si avvicina il proprietario del bar e ci saluta. Sono imbarazzata, ma ordino lo stesso tre coppette con gelati alla frutta. Per me, la creatura e il gabbiano. Faccio tutto istintivamente, senza pensarci e il signore del bar ci porta le coppette con due cucchiaini, uno per me e l'altro per la creatura.

Per il gabbiano non è necessario, lui fa tutto da solo.” mi dice, mentre posa al tavolo le coppette e i bicchieri d'acqua.

Quanto pago?” domando.

Niente. Per voi tutto quello che chiedete è in omaggio.” e sorride compiaciuto.

“Perché?”

“Tra un poco se ne accorgerà” e se ne va.

Devo togliermi il cappotto, il cappello, la sciarpa. Se potessi mi toglierei anche i vestiti, il caldo è insostenibile. Ma resisto. Si avvicinano persone, si fermano, si seggono e ordinano gelati. Si spogliano degli abiti invernali e ci salutano sorridenti con un cenno del capo. Mangiamo affamati, il gabbiano ha già finito il suo. Il tizio del bar, aggiunge tavoli e ci serve altri gelati indossando vestiti e scarpe estive. Le porta anche a me e mi dice:

“ si tolga le scarpe e indossi queste, se vuole le do una casacca. Può cambiarsi nei bagni qua dietro. Ma l'avverto nei bagni non arriva questo caldo”

Non riesco a rispondere, perché tutto mi sembra assurdo. Sudo, allora mi spoglio e rimango in mutande e reggiseno. Che meraviglia! Intanto guardo il gabbiano come si gusta il suo gelato. Affonda il becco nella coppetta, reclina il capo in dietro e velocemente ribecca la polpa che in poco tempo finisce. La creatura guarda compiaciuta in ogni direzione, quando incontra il mio sguardo è piena di allegria. Ho la sensazione che si stia innamorando di me ed io di lei.

“Prima che lei arrivasse, c'è stato un piccolo terremoto. Ogni volta che la terra trema, qui e non altrove, noi sappiamo che una creatura cade dal cielo e si schianta tra le rocce, senza farsi male naturalmente. A volte emergono dalla terra o è il mare a portarle. Il loro arrivo è sempre preceduto da un breve terremoto. È venuta per lei, lo sa questo?”

“Lo avevo intuito. Ma... tutta questa gente?”

“Queste creature portano caldo. Cambiano il clima nella zona, soprattutto in questi giorni invernali, così freddi. Le persone ne approfittano per avere ristoro, per asciugarsi le ossa. Queste creature, portano benessere. Ed io in questi giorni guadagno più di quanto incasso in un mese.”

Il terremoto mi ha sempre affascinato, forse perché sono nata nell'anno di un sisma che ha sconquassato l'intero Belice, in Sicilia. Mi arriva come un vento d'Africa il ricordo del terremoto degli anni 80. Una sera Palermo sentì le scosse propagate dall'epicentro dell'isola di Ustica. Mia madre mi guardò sorridendo e mi disse “eccolo! Questo è il terremoto!”. Ricordo che ero eccitata, non vedevo il pericolo, vedevo solamente la grandezza della Terra. Quando il pianeta parla tutte le creature fuggono. Avevo dei criceti, tre per l'esattezza: Cricchia, Cricchio e Striminzito. Ogni sera facevo fare loro la passeggiata nel lungo corridoio di casa. Mi mettevo seduta in un angolo, e li guardavo correre, odorare, assaporare il grande spazio. Poi venivano da me, si arrampicavano sul mio corpo, io li accarezzavo, li baciavo e raccontavo la mia quotidianità. Dopo un ora, quando accusavano stanchezza, li riportavo nella grande gabbia che tenevo in cucina. Quella sera, erano inquieti, strani. Li tiravo fuori dalla gabbia e loro rientravano immediatamente. Sembravano presi da una nevrosi collettiva che li portava ad arrampicarsi alle sbarre della gabbia, come se cercassero qualcosa. Continuamente li vedevo salire e scendere. Mi preoccupai, ci preoccupammo, poi però senza comprendere ci rassegnammo e indirizzammo i nostri sguardi verso la televisione che ci drogava.

Quando arrivò il tremore della terra si quietarono.

Quando arrivò l'urlo della terra gli umani si allarmarono.

La creatura apre la sua bocca mi sorride eccitatissima ed emette un grido da perforare i timpani. Devo tapparmi gli orecchi per attutire il frastuono acustico e così anche la gente che ci circonda. Il gabbiano invece pare non esserne disturbato, apre le ali, si sgranchisce le gambette e poi si ricompone. Qualcuno si alza e si avvicina.

“Me ne avevano parlato ma non volevo crederci, la disturbo se le chiedo un autografo? È stato un urlo favoloso.”

Mi porge la penna e la maglietta che stende sul tavolo affinché possa scriverci sopra. Ma cosa? Il mio nome? Mi sento stordita ma tutti ci guardano e aspettano che io firmi il tessuto.

Allora scrivo “Creatura dormiente”, il signore si ripiglia il trofeo, lo guarda soddisfatto e la mostra a tutti che annuiscono e sorridono. Il proprietario del bar viene a chiarirmi le idee.

“E' sempre così, non si stupisca. D'altronde non capita tutti giorni che il proprio inconscio si stacchi dall'individuo che lo contiene.” e se ne va.

Il mio inconscio!? Dunque, quella creatura sono io? E perché mai il mio inconscio si è staccato da me? Quale esigenza ha avuto per lasciarmi, per abbandonarmi? Cosa ho fatto perché non volesse più abitare nel mio corpo e avere una vita propria? Sono arrabbiata, disperata, mi sento tradita. Sì, tradita. Mi alzo di scatto, sotto gli occhi di tutti, con l'intento di scappare, di dire addio alla bella festa, alla bella giornata, al sole accecante, al caldo asfissiante. Ma subito nella mia mente il ricordo arriva con prepotenza, di me che dipingo un quadro che non vuole prendere nessuna direzione. Di me che vago alla ricerca della forma e di un nuovo e più giovane estro creativo. Che sto giorni e giorni a fare e disfare. Del mio abbandono, della mia insoddisfazione, del mio ritorno. Delle cancellate e delle riprese. La preparazione dei colori, la pulitura dei pennelli. La fatica, lo stare in piedi ore e ore. La mia sconfitta e poi la strada giusta, la giornata giusta, il colore, la forma, l'idea e infine l'apparizione di una strana creatura che placida dorme sulla mia tela. 

Allora rivaluto gli sguardi su di me, supplichevoli, in attesa che prenda la giusta decisione o la più conveniente. Volevo afferrare le mie cose e andarmene. Volevo, mettendo fine a questa splendida giornata, e perché no, a questa insolita scoperta. Allora sempre lui, il tizio del bar risolve la mia sconcertante titubanza, portando altri gelati, soprattutto al gabbiano che sembra insaziabile. La creatura, intanto, mi sorride felice. Perché mai dovrebbe essere altrimenti? È con me, con chi l'ha contenuta in tutto questo tempo. E anche se non capisco lo scopo di trovarci separati, non vedo perché mai non dovrei assecondare i suoi desideri e godere di questa stravagante condizione.

Mi seggo.... e aspettiamo...aspettiamo che arrivi la sera, in questa breve vacanza estiva in pieno inverno. Io, il mio inconscio e il gabbiano.

Ma se la creatura è il mio inconscio, il gabbiano chi è?

In una sera gelida, sugli scogli color cenere, imbiancati da una luna accecante, tre creature riposano rivolte al mare, guardandolo per la prima o l'ultima volta, mentre un vento possente e caldo si alza, si alza e la terra trema.”

Fine.



Letizia Porcaro

*Il racconto è stato scritto nel 2019. Ultima stesura 2020.

©letiziaporcaro2020